A che scopo mi hai abbandonato?

A inventare il termine teodicea è stato Gottfried Wilhelm von Leibniz, scienziato e filosofo tedesco vissuto tra il 1646 e il 1716, considerato uno dei massimi pensatori della modernità. Tra l’altro gli viene attribuita, insieme a Newton, la paternità del calcolo infinitesimale. Nel 1710 diede alle stampe Essais de Théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l’homme et l’origine du mal, Saggi di Teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male.

La parola teodicea è costruita componendo due termini greci, theos, dio e dike, giustizia. Si riferisce quindi alla giustizia di Dio, solo in seguito ha assunto il significato attuale di branca della teologia che si interroga sulle origini del male e del dolore nel mondo.

Le soluzioni all’interrogativo sul come mai un Dio che si proclama buono e innamorato della natura e dell’umanità permetta la sofferenza delle sue creature, a meno che addirittura non la crei deliberatamente, sono state molteplici e differenziate. La più semplice e diretta fu quella manichea: esistono due divinità, una è buona l’altra malvagia, e sono in lotta l’una con l’altra. Lo gnosticismo avanzò proposte simili, più complesse. L’unico risultato in qualche modo condiviso è che deve esistere un legame forte tra libertà e dolore, senza che si sia riusciti ad andare molto più in là.

Klaus Berger, teologo tedesco scomparso cinque anni fa, ha suggerito di spostare l’attenzione della teodicea su di un quesito diverso, interno a quella che lui chiama teologia del silenzio. La vera questione non starebbe nel “fatto che la sofferenza provoca dolore”, ma “sembra assurdo che il ‘perché’ e ‘a che scopo’ non sono chiariti”.

Di conseguenza, Berger arriva a proporre una nuova interpretazione della domanda rivolta a Dio da Gesù sulla croce, non più “per quale ragione” mi hai abbandonato ma bensì “a che scopo” lo hai fatto?