La ruota gira e ciò che è stato ritorna. Come la fisica, anche la politica ha le sue leggi, la sua meccanica. Inesorabili. Soprattutto in democrazia, quando ogni cittadino ha conquistato uno spazio di decisionalità e l’opinione pubblica ha messo su un po’ di muscoli. I tatticismi dei professionisti hanno il fiato corto, quello che pesa, che significa, che vale, è il consenso. Uno specialista ebbe a dire che alla base la politica consiste nell’organizzazione del consenso. Senza di quello non c’è prospettiva, disegno, ambizione o manovra che abbia senso.
Così da noi la pretesa di arrestare l’ondata del populismo ammaestrandola, contaminandola, tentando di separarne le spinte dopo averne assecondato l’avvento al potere ha un respiro corto. La massa elettorale della Lega e quella del M5S si attraggono con la forza con la quale la mela di Newton precipita a terra una volta staccata dal ramo. Inutile illudersi che esista un populismo buono, con il quale trattare, e uno cattivo da tenere in gabbia. Alla fine del numero il domatore viene divorato da entrambi gli animali.
Il richiamo del potere è così forte, il desiderio di governo (di starci dato che governare è altro) è così inebriante da indurre nemici ritenuti acerrimi a ritrovare motivi di convivenza, a polverizzare accordi e ambizioni basati su alchimie complesse. Dietro ai voti in Parlamento occorre avere il consenso popolare, la base di suffragi, pure in un periodo di scarsa frequenza alle cabine elettorali. Serve a poco sostenere che è per il Paese che non si va a votare in tempo di covid, se tutti sanno che chi lo dice verrebbe annientato dal ricorso alle urne. Una democrazie è e rimane sempre uno Stato nel quale si vota, anche e soprattutto quando non si sa come andrà a finire.
Agli elettori non si dovrebbero chiedere solo ratifiche di scelte già fatte o misurazioni rituali delle dimensioni della torta da spartira: ogni tanto un indirizzo risulta utile. Vivere di sondaggi elettorali alla lunga risulta meschino e negli ultimi tempi si è spesso rivelato anche sbagliato; le crocette messe sui simboli non hanno corrisposto alle aspettative di chi ordinava le ricerche di mercato. L’errore consiste nell’aver paura degli elettori, nel non fidarsi del loro giudizio, nel ritenere che le occasioni di voto vadano evitate come la peste. È il fattore infedele che ha paura del giudizio del padrone dell’azienda.
In Italia molte volte l’elettorato si è dimostrato saggio ed equilibrato. Nel ’48 indirizzò il paese sulla via della ricostruzione, nel ’94 rifiutò la macchina da guerra post comunista, anche di recente ha ridimensionato le ambiziose pretese maggioritarie di un PD troppo simile al PCI. Una classe politica sinceramente democratica dovrebbe accettare con fermezza consapevole di essere tonificata dal ricorso alle urne, di confrontarsi con i problemi vissuti e riconosciuti dalla popolazione, di ricercare le motivazioni del proprio agire in nome della comunità.
Altrimenti rimane prigioniera di corsi e ricorsi sempre più rapidi.
Mosche cocchiere si illudono di dettare il gioco per accorgersi che è sempre lo stesso, che il punto d’equilibrio dell’ultima tornata elettorale è un’indicazione di attesa, interpretata alla perfezione dall’immobilismo contiano, disponibile a promettere tutto e impossibilitato a concedere alcunché di sostanziale. Conte uno, Lega-M5S, Conte due, PD-M5S, Conte ter, Lega-M5S-PD…
Ai risultati elettorali si sfugge solo con altre elezioni.
Sergio Valzania