Il mondo dell’ortodossia soffre di gravi tensioni interne a causa della questione ucraina. Il Patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I, ha infatti riconosciuto la chiesa autocefala, e quindi indipendente, di Kiev, mentre quello di Mosca, Kiril I, non lo ha fatto, pretendendo di mantenere la sua autorità religiosa sui fedeli ortodossi dello stato da poco divenuto indipendente.
Quando ci sono situazioni di disaccordo, anche profondo come in questo caso, è importante continuare a comunicare, mantenere aperti dei canali per parlarsi e ascoltarsi reciprocamente. Spazi e occasioni di dialogo, confronto, scambio divengono preziosi.
È stato il caso in questi giorni del Monastero di Bose dove due personalità ai vertici delle gerarchie moscovita e costantinopolitana, gli arcivescovi Hilarion di Volokolamsk e Job di Telmessos, si sono salutati con un abbraccio caloroso davanti a una platea di monaci, prelati, cultori, esperti e appassionati dell’ortodossia. Una dimostrazione di affetto inter-ecclesiale che lascia immaginare colloqui riservati in questa sorta di terra di nessuno nelle Prealpi biellesi.
Dal 4 al 6 settembre si è svolto infatti a Bose il XXVII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, sul tema “Chiamati alla vita in Cristo, nella chiesa, nel mondo, nel tempo presente”. L’incontro organizzato dal monastero è un appuntamento importante, cui prendono parte esponenti delle gerarchie di tutte le Chiese e studiosi di tutto il mondo.
Oltre ai vertici dei patriarcati di Costantinapoli e Mosca erano presenti i rappresentanti di quelli patriarca di Alessandria, di Georgia e di Antiochia, delle Chiese ortodosse ucraina, serba, bulgara e romena, di quelle di Grecia e di Albania. C’erano poi rappresentanze della Chiesa ortodossa in America, della Chiesa copta ortodossa e della Chiesa Apostolica Armena.
Come ormai tradizione, l’ospitalità offerta ai partecipanti al convegno non ha intaccato i ritmi della vita del monastero: ogni giorno i tre momenti della preghiera collettiva sono stati rispettati, nel rigore ferreo dei loro orari, creando in questo modo un ambiente utile ad accogliere nel modo più fruttuoso le riflessioni teologiche dei relatori.
Secondo Enzo Bianchi, fondatore del monastero di Bose e presidente del comitato scientifico, che ha tenuto la prolusione al convegno “nell’ebraismo e nel cristianesimo la lettura della storia dell’umanità si manifesta come testimonianza di ripetute vocazioni e chiamate da parte di Dio”. Queste convocazioni appartengono a tre livelli. Il primo è quello della “chiamata cosmica”, riferita all’intera creazione.
Al secondo livello appartiene la “chiamata umana”: “è chiamata alla vita, una vita conforme all’immagine di Dio”. Sul gradino ulteriore si trova la “chiamata cristiana”, che non è altra, ma si innesta “sul cammino di umanizzazione in cui si è capaci di ascoltare la voce della coscienza”. Si tratta della convocazione a vivere in Cristo, a essere conformi a Lui, il vero e definitivo Adamo. In questo contesto trovano il loro pieno significato le parole di san Paolo “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”.
Aperto in questi termini, il convegno si è sviluppato affrontando molti temi caldi della riflessione teologica ed ecclesiologica contemporanea. In uno svolazzare di tonache e rason, l’abito tradizionale dei monaci ortodossi, sono sfilate sul podio dei relatori vesti ecclesiastiche bianche e nere, beige e nocciola, che a volte lasciavano intravedere l’orlo dei jeans o scarpe da tennis colorate.
Si è parlato dell’annosa e nodale questione dell’intercomunione, della possibilità cioè per i fedeli cattolici e ortodossi di accostarsi all’eucarestia celebrata con il diverso rito, facoltà accordata dalla gerarchia dei primi, ma negata da quella dei secondi, con il risultato del mantenimento della distanza fisica e sacramentale esistente fra le due comunità di credenti. Sono gli ortodossi statunitensi a chiedere con maggior forza un’apertura in questa direzione. Poi la questione femminile, che si allarga a quella del genere e della sessualità in tutti i suoi aspetti.
Dalla massa delle relazioni e degli interventi del pubblico emergono schegge e frammenti di riflessioni, precisazioni, curiosità e approfondimenti dei quali è possibile riferire solo per esempi.
L’arcivescovo rumeno Andrei di Cluj, nel suo intervento dedicato al “Senso della speranza cristiana” ha raccontato un apologo. Il figlio dell’imperatore è ammalato e i medici di corte sostengono che può guarire solo indossando la camicia di un uomo felice. Subito vengono mandati emissari in tutto l’impero perché procurino questo prezioso oggetto. La ricerca si rivela difficile: principi, commercianti, studiosi, monaci, alti prelati, banchieri, artisti, possidenti terrieri, una volta interrogati ammettono tutti di non essere felici e di non possedere quindi la camicia terapeutica. Un giorno, uno degli incaricati della ricerca sente un canto che gli pare particolarmente allegro provenire da un fitto bosco. Si inoltra tra gli alberi e scorge un taglialegna, a torso nudo, che sta abbattendo una pianta gigantesca. Decide di avvicinarsi e chiedere la ragione di tanta allegria. Il taglialegna risponde “canto perché sono felice: ho una moglie che mi vuol bene, bei figli, una capanna pulita, adesso abbatto questo albero, vendo la legna e così avremo tutti da mangiare per il prossimo mese.” Convinto dalla risposta il messo si offre di acquistare la camicia del taglialegna felice, ma quest’ultimo confessa di non averne mai avuta una in tutta la sua vita. La felicità non si può comperare, in nessuna forma.
È stato affrontato più volte il tema della bellezza, imposto alla teologia cristiana nel suo complesso dalla ricerca di Hans Ur von Balthasar; allo stesso modo si è criticata la scarsa attenzione rivolta al rapporto fra corpo, mente e anima, che ha condotto alla generica accettazione di un platonismo di sapore gnostico che non corrisponde alle indicazioni evangeliche, evidentemente contrarie non solo a una opposizione tra anima e corpo, ma anche a una loro netta separazione.
Non si può tralasciare infine la suggestione offerta dal newyorkese, Peter Bouteneff, che trattando dell’ “Esperienza del perdono” ha considerato la possibilità che per i cristiani il perdono non sia un evento unidirezionale, che procede solo da Dio verso l’uomo, ma rappresenti piuttosto una modalità di incontro e di riconoscimento reciproco.
Sergio Valzania