Il monastero di Bose

Attorno alla fine del decimo secolo, ultimata la costruzione della Grande Lavra, il primo grande monastero cenobitico del Monte Athos, e fissata la regola per i monaci che lo avrebbero abitato, sant’Attanasio lasciò i confratelli per ritirarsi nella piccola residenza di Milopotamo, per lasciare la comunità libera di crescere in autonomia, senza sentire il vincolo dovuto alla presenza del fondatore. Avrà pensato a lui, Enzo Bianchi, quando dalla Segreteria di Stato del Vaticano ha ricevuto l’ordine di lasciare insieme ad altri tre monaci il monastero di Bose, che ha fondato e dove vive da oltre cinquant’anni, per consentire al nuovo priore di esercitare le proprie mansioni senza il confronto costante con la sua autorevole personalità. Avrà pensato anche a san Francesco, che negli ultimi anni dell’esistenza si trovò in disaccordo con la dirigenza dell’ordine che aveva fondato e mal sopportava la povertà assoluta nella quale il poverello di Assisi avrebbe voluto conservarlo.

Che non tutto filasse liscio al monastero di Bose, centro di spiritualità ecumenica di livello mondiale, arroccato sulle Prealpi biellesi, dove ogni anno si svolge il maggior evento dell’Ortodossia, al quale partecipano esponenti di tutte le chiese autocefale, era apparso chiaro alla fine dello scorso anno. Il 6 dicembre 2019 il Vaticano aveva infatti mandato a Bose una «visita apostolica», cioè una sorta di ispezione amichevole, una missione di esperti incaricata di operare una mediazione.

L’oggetto di tale mediazione, che evidentemente non è riuscita, non poteva che riguardare la difficoltà incontrata dal nuovo abate, Luciano Manicardi, succeduto nella carica a Enzo Bianchi nel gennaio del 2017, a gestire il proprio ruolo affiancato dalla presenza ingombrante del predecessore, che continuava a vivere nel monastero, curando l’orto e astenendosi dall’interferire nelle scelte della comunità, senza però poter deporre la grande autorevolezza che gli deriva dall’essene fondatore, dall’averla guidata e fatta crescere per mezzo secolo.

Gli abati ortodossi, gli igumeni dei monasteri delle Meteore e del Monte Athos, quando sentono troppo gravoso il peso dell’incarico che ricoprono, sono soliti rinunciarci favorendo l’elezione alla carica di un candidato da loro individuato come meritevole, si procede ad una sorta di affiancamento e poi il vecchio abate si ritira dalla partecipazione attiva alla vita della comunità. Il perfezionamento di una prassi del genere ha richiesto secoli di maturazione e ancora oggi non sempre tutto riesce senza scosse. Il potere assegnato all’abate di un monastero è infatti di derivazione democratica, dato che discende da un’elezione, ma grandissimo. Non si limita all’organizzazione della convivenza, riguarda la guida spirituale di ogni membro, concerne la sua vita interiore e, in prospettiva, la salvezza. Il monaco accetta obblighi che nessuno gli impone, e questo richiede l’armonia del contesto nel quale trascorre le giornate ritmate dalla preghiera.

A Bose c’è stata un’incomprensione, qualcosa non ha funzionato. In un twitter degli ultimi giorni Bianchi scrive “Ciò che è decisivo per determinare il valore di una vita non è la quantità di cose che abbiamo realizzato ma l’amore che abbiamo vissuto in ciascuna delle nostre azioni”. All’amarezza che sicuramente prova in questa occasione si accompagna la consapevolezza dell’importanza di ciò che è stato fatto, soprattutto in termini di costruzione di rapporti umani, di creazione di affetti e di capacità di incontro e accoglienza. Aggiunge poi “anche quando le cose che abbiamo realizzato finiranno l’amore resterà come loro traccia indelebile”.

Molti si sono interrogati su quanto sta avvenendo a Bose. Lo scambio di messaggi sui social è stato intenso, spesso dettato dalla curiosità, il più delle volte da sentita partecipazione. Adesso è il tempo del silenzio, del raccoglimento, della preghiera. Della conferma di una fratellanza che va ben oltre le incomprensioni, anche profonde, di una fase della vita.

Sergio Valzania