Il rifiuto di finanziare Radio Radicale

La questione di Radio Radicale non è epifenomeno, bega di condominio, ripicca di un gerarca minore – come lo ha fotografato Massimo Bordin – divenuto sottosegretario all’Editoria che vuole dimostrare il potere proprio e del proprio partito sbarazzandosi di qualcuno che gli è antipatico da sempre.

Il guaio sta nel fatto che si tratta davvero di un confronto culturale, della contrapposizione di due modelli di pensiero, all’interno di uno dei quali per Radio Radicale non c’è più posto e le cui ragioni vengono ripetute un giorno sì e uno no dal direttore dell’autorevole organo ufficiale del Movimento Cinque Stelle.

Il rifiuto di finanziare Radio Radicale si incastona alla perfezione in una concezione semplificata della realtà, per la quale i problemi sono tutti di agevole soluzione. Per la TAV basta fare una valutazione costi-benefici e sappiamo se è opportuno o meno partecipare a un progetto europeo in corso da decenni; per l’immigrazione è sufficiente chiudere i porti e lo squilibrio demografico tra Africa ed Europa scompare di colpo; per abolire la povertà, questione radicata nella storia dell’umanità,  non serve altro che un piccolo provvedimento legislativo, qualche domanda presso l’apposito sportello e non ci si pensa più; anche per il ponte di Genova si fa il possibile e per il resto la vita va avanti da sola, qualche disagio va messo nel conto. Quindi se esistono canali televisivi dedicati dei due rami del Parlamento si può fare a meno del servizio svolto fino a oggi egregiamente da Radio Radicale. La logica è la stessa. Piccole soluzioni per piccoli problemi.

Anche per la metropolitana di Roma, divenuta “veloce” grazie alla chiusura delle tre stazioni che si trovano nel centro della città, basta risolvere i contratti di manutenzione delle scale mobili e stipularne di nuovi: poco importa se gli impianti sono chiusi da settimane e non si sa quando rientreranno in funzione. Le carte sono a posto.

Dietro a queste scelte sta una cultura che esprime un programma antipolitico centrato sull’ “uno vale uno” e sulla convinzione che l’onestà non sia una componente prepolitica, necessaria a ogni onesto lavoratore di qualunque settore, ma piuttosto il solo requisito da richiedersi a chi si occupa degli interessi pubblici, che non hanno bisogno di alcuna competenza per essere gestiti nel modo migliore. È sufficiente la comune dedizione di una persona qualunque. Non a caso questo modo di affrontare i problemi di definisce tecnicamente come qualunquismo.

Il rifiuto di scorgere la complessità del mondo, e anche la sua ricchezza, impedisce di riconoscere le ragioni per le quali Radio Radicali è un pezzo significativo del nostro sistema di libertà. Non è solo Dio a nascondersi nei dettagli e a lottare lì con il demonio. Anche la libertà e la democrazia vivono in spazi particolari inseriti in complessità integrate. Il motore funziona perché c’è il lubrificante. Si votava tanto nell’Italia Fascista quanto nella Romania di Cerausescu, anche lì c’erano i sindacati e si stampavano giornali, a Roma c’era la radio e a Bucarest hanno fatto in tempo a vedere anche la televisione di regime. A questo si aggiungeva il famoso cartello presente nei locali pubblici “Qui non si parla di politica”, intendendo per politica una sorta di male sociale, più grave del tifo calcistico, per il quale si pretende di occuparsi delle vicende della collettività immaginando che per esse si debba decidere tra modalità di gestione diverse, che il faticoso accompagnare la lenta soluzione di problemi che vengono da lontano non sia competenza di una ristretta élite ma possa essere esperienza sociale, condivisa. Perché le risposte non sono date, vanno costruite. Non basta creare una commissione di studio composta da tecnici per ottenere la risposta certa a ogni quesito.

Il senso di una politica democratica consiste nelle convinzione che le decisioni sul futuro comune, si tratti di gallerie o di immigrati, di assistenza sociale o di politica del lavoro, debbano emergere da una laboriosa esperienza collettiva nella quale i politici hanno la responsabilità della mediazione. Non dall’inseguimento di sondaggi di mercato, magari effettuati sempre con lo stesso panel dalla Casaleggio e Associati.

Radio Radicale è una componente, magari non perfetta ma certo funzionale, di quell’apparato che Winston Churchill definiva un pessimo sistema di governo, ma comunque il migliore che siamo stati capaci di creare. Il vicepresidente del consiglio Di Maio dice che si sta occupando della questione, speriamo.

Sergio Valzania